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Te lo dico con lo “schwa”

Il tema del linguaggio inclusivo è entrato anche da noi nella sensibilità pubblica e ha spinto ad adottare singolari soluzioni stilistiche

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“Avviso per tuttǝ: rispettare le distanze di sicurezza”; “Incontro pubblico con la cittadinanza. Interverranno assessorǝ e consiglierǝ comunali”. Avete mai letto su un cartello in un locale o in un luogo pubblico un testo con parole che contengono la strana lettera “ǝ”, minuscola (o Ǝ, maiuscola), come nelle scritte riprodotte qui sopra come esempio?

Vi siete mai chiesti qual era il significato di quella “e”, minuscola o maiuscola, rovesciata? Molti, abituati al linguaggio inclusivo, lo sanno e se ne compiacciono. I puristi pensano che è una soluzione sbagliata a un problema reale, problema che vorrebbero affrontare però con soluzioni più chiare e meno artificiali. Per molti altri resta un mistero, una bizzarria o, peggio ancora, l’errore di qualche scrittore sprovveduto.

Quel modo di scrivere è il risultato dell’esigenza di usare un linguaggio inclusivo, che non discrimini il genere femminile usando le forme del plurale maschile (tutti) anche quando ci si riferisce a un gruppo misto, fatto di uomini e di donne. Negli Stati Uniti, nei Paesi di lingua inglese e in alcuni Paesi europei avanzati il tema è stato discusso sin dagli anni Settanta del Novecento, per poi, più di recente, diffondersi anche da noi ed essere al centro delle discussioni antidiscriminatorie.

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Raymond Carver (1938-1988), lo scrittore statunitense noto per la sua visione disincantata e icastica della realtà espressa con un linguaggio crudo ed essenziale, affermava: «Ognuno di noi è le parole che sceglie» e, rifletteva, «le parole sono tutto ciò che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste».

Ma cos’è il linguaggio inclusivo? È un linguaggio che non utilizza parole, frasi, espressioni linguistiche, immagini e toni dettati da stereotipi di genere o qualificazioni negative di specifici gruppi di persone a causa del loro sesso, orientamento sessuale, identità di genere, età, etnia, aspetto fisico, stato sociale. Per fare un esempio banale, la parola “negro”, corrispondente grossomodo alle espressioni inglesi negro e nigger, ha una connotazione negativa rispetto al termine più neutro “nero” o, per l’inglese, colored man/guy, “uomo/individuo di colore”.

Le ragioni che motivano la richiesta di un linguaggio inclusivo si fondano sul fatto che per definire moltitudini di persone, maschi e femmine, la lingua italiana offre soltanto la possibilità di usare il maschile, cancellando di fatto la presenza femminile. La grammatica non offre altre soluzioni, dato che nella nostra lingua non abbiamo un genere neutro, come in latino.

Una soluzione per indicare un gruppo di persone maschi e femmine, senza cancellare un genere (femminile) a vantaggio dell’altro (maschile), è introdurre desinenze “neutrali”. La soluzione ha cominciato a essere adottata soprattutto per la lingua scritta, in special modo nella comunicazione digitale. Capita oramai di frequente di leggere parole al plurale che terminano con asterischi (*), chiocciole (@) o schwa per evitare l’attribuzione di genere.

Ma cos’è lo schwa? È la soluzione mostrata sopra negli esempi menzionati, cioè l’uso della “e” rovesciata. Non è un nuovo segno, compare già alla fine dell’Ottocento nell’Alfabeto fonetico internazionale (Ipa) ed è la trascrizione di origine tedesca della parola ebraica shĕvā, che significa “insignificante”, “nullo”.

Corrisponde a un suono vocalico debolmente articolato, presente in molte lingue come il tedesco, l’ebraico, l’olandese, il norvegese, l’albanese, il bulgaro, il rumeno, il catalano, l’hindi e altre ancora o, in Italia, in alcuni dialetti soprattutto meridionali. Nella lingua inglese è il suono vocalico più diffuso, basti pensare alla “a” di about, la “e” di father o la “u” di but.

Lo schwa non è una a e nemmeno una o, è a metà strada delle vocali che solitamente in italiano fanno da suffisso a nomi di genere maschile o femminile. La sua peculiarità rispetto ad altre soluzioni grafiche, dicono i fautori del suo uso in italiano, è che non è solo un segno grafico, ma anche fonetico, cioè è un suono pronunciabile e può essere espresso nella lingua parlata.

I nostri linguisti non sempre concordano sull’uso dello schwa. Alcuni sono molto favorevoli, vedendo nel suo uso un progresso democratico improntato alla parità di genere e del politically correct.Altri, invece, ritengono che l’adozione di questi espedienti linguistici, quali lo schwa e le altre soluzioni grafiche, apre altre difficoltà nell’uso linguistico, soprattutto per la comunicazione pubblica istituzionale, e cercano altre soluzioni. Ma questa è un’altra storia, che sarà oggetto di un prossimo approfondimento.

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Salvatore Speranza
Salvatore Speranza
Romano, di formazione epistemologo e teorico della comunicazione. È giornalista e divulgatore scientifico per vari supplementi culturali, scrivendo di matematica, scienze cognitive e naturali, oltre che di comunicazione e di sociologia politica. È presidente regionale Lazio di una storica associazione civica nazionale, per la quale segue prevalentemente i settori ambiente e rifiuti, politiche sociali, relazioni istituzionali e governance.
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