Negli anni ’90 ogni negozio che apriva, azienda, attività, aveva un nome al quale veniva aggiunta la cifra “2000”, a sottolineare forse un augurio ma anche un qualcosa di innovativo, di qualitativamente superiore. I nativi dagli anni ’80 in poi hanno definito la loro generazione “millenial”; essi stessi si definiscono “millenials”. Non si sapeva bene cosa aspettarsi ma certamente era un’epoca di grandi aspettative e forse, per qualcuno, anche di ottimismo.
Dal 1993/94 ogni giorno leggevamo servizi allarmanti sul cosiddetto Millenium bug: una disfunzione (mi perdonino gli addetti ai lavori per il mio linguaggio poco tecnico) che avrebbe mandato il mondo in tilt. Il giorno “X”, nel quale all’algoritmo 00.00.00 si sarebbe verificata la fine in senso informatico del mondo, non è accaduto nulla oppure, forse, si. Il bug che avrebbe dovuto decretare la fine di tutto alle 00.00.00 ha dimostrato a tutti che il bug l’avevamo in testa.
Gran parte di quella che è stata la generazione che ha vissuto consapevolmente gli anni ’80, quegli anni di indicibili pagliacciate, dove quella sorta di ottimismo dilagante, abiti sfavillanti, la Milano da bere, il «pigliati ‘sto pezzo di carta che poi trovi il posto fisso: tu figli* mi* non devi fare i sacrifici che ho fatto io”, la truppa dei genitori spazzaneve che hanno tolto ai figli persino il diritto di desiderare, ché ogni anelare veniva soddisfatto prima che arrivasse “a coscienza” e diventasse desiderio, poi brama… ha manifestato il suo “peso”. Non è un peso che riguarda il concetto di “spessore” ma proprio di grevità.
Un soggetto sano desidera qualcosa, cerca di ottenerlo, si adopera per questo. Se l’obiettivo è raggiungibile, riesce e ne gode; se non lo è, prova a correggere il tiro ma tutti i tentativi di “correzione del tiro” generano una maturazione che, nella maggior parte dei casi, fa giungere alla decisione di scegliere un obiettivo più raggiungibile o di lavorare su sé stessi al fine di riparare alla frustrazione. È naturale che il tutto è quanto sopra consta in una ipersemplificazione ma serve a me perché, nell’individuo sufficientemente sano, se l’obiettivo non è raggiungibile, si lavora su sé stessi, non si distrugge l’obiettivo.
Non credo avremmo mai creduto che, nel 2023 una donna non potesse lasciare il compagno o il fidanzato. Eppure si: ci portiamo appresso una specie di delitto d’onore. Ci portiamo appresso la grettezza di una società che ha venduto l’essere all’avere e che fa dell’individuo una cosa da invidiare. Pensandoci: chi distrugge (verbalmente, svalutandolo o danneggiandolo, rompendolo) l’oggetto che non può avere, funziona in un certo modo.
Oggi ennesima uccisione di una ragazza. Una creatura.
Quando sento dire «Era innamorato, non sopportava di perderla», mi chiedo se siamo impazziti: si perde un oggetto, non una persona. Il rapporto cambia ma la persona non è “persa” anche perché, in italiano, il concetto di perdersi è relativo alle persone e, quando si parla di “perdita” della persona, ci si riferisce alla perdita per evento luttuoso.
Essere innamorati vuol dire riconoscere lo statuto dell’altro in qualità di essere vivente, il suo diritto ad esistere, si ama la sua libertà perché il fatto che egli sia libero gli permette di sceglierci liberamente ogni giorno e questa è la più grande garanzia del suo amore. Quindi, tornando al concetto di perdita, se l’altro non è un essere vivente meritevole della propria libertà di sceglierci o no, significa che come persona non lo abbiamo mai avuto e che, quindi, non possiamo perderlo se non trattandolo come un oggetto. Quello si, che è inanimato e non può tornare autonomamente e per propria decisione, si può perdere.
Il raptus: non mi voglio infilare nel ginepraio delle questioni accademiche nel merito. Dico solo che, se i concetti di “altro” e di “alterità”, di “essere senziente” e, di conseguenza, “con-senziente” (dal latino: adesione alla volontà) fossero inglobati nell’educazione, forse non solo il femminicidio ma anche il senso del rispetto avrebbero avuto un differente destino.