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Senza riforme, i giovani andranno in pensione a 74 anni con assegni bassi

Ricerca di Consiglio nazionale dei giovani ed Eures: «Assegno medio di 1.561 € lordi, 1.093 netti: una situazione socialmente insostenibile»

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I giovani entrati nel mondo del lavoro nel 2020 all’età di 22 anni in Italia raggiungeranno l’età pensionabile a 71 anni, il dato più alto tra i principali Paesi europei. Queste le proiezioni originali sul valore delle pensioni atteso nei prossimi decenni per i lavoratori dipendenti che oggi hanno meno di 35 anni: se la permanenza si protraesse fino al 2057, determinando così un ritiro quasi a 74 anni (73,6), l’importo dell’assegno pensionistico ammonterebbe a 1.577 euro lordi mensili (1.099 al netto dell’Irpef), valore che equivale a 3,1 volte l’importo dell’assegno sociale.

Sono i dati principali che emergono dalla ricerca “Situazione contributiva e futuro pensionistico dei giovani. Quali risposte all’inverno previdenziale”. Lo studio è realizzato a cura del Consiglio nazionale dei giovani (Cng), organo consultivo istituito dalla Legge 145/2018 per rappresentare gli interessi dei giovani nel dialogo con le istituzioni italiane, in collaborazione con Eures, rete di cooperazione europea dei servizi per l’impiego, concepita per facilitare la libera circolazione dei lavoratori.

«La crescente precarizzazione e discontinuità lavorativa, associata a retribuzioni basse e mancanza di garanzie sociali, colpisce in particolare i giovani e le donne, rendendo più difficile il loro percorso di ingresso nel mercato del lavoro, la stabilità contrattuale e i livelli retributivi». Lo ha affermato, in occasione della presentazione della ricerca, la presidente del Cng, Maria Cristina Pisani, 32 anni: nata a Napoli e cresciuta in Basilicata, studi in giurisprudenza, è anche vicepresidente dell’Association Femmes d’Europe Méridionale (Afem).

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Il riflesso di precarietà, discontinuità e bassi redditi sulle pensioni

«Tutto questo – ha aggiunto Pisani – comporta un impatto significativo sulla situazione previdenziale futura dei giovani. La questione demografica e il passaggio al sistema “contributivo puro” mettono ulteriormente a rischio la sostenibilità del nostro sistema pensionistico. Questa tendenza impone ai cittadini di lavorare più a lungo per ricevere pensioni meno generose rispetto alle generazioni precedenti». Secondo l’analisi di Eures, ha proseguito la presidente del Consiglio nazionale dei giovani, «la combinazione di discontinuità lavorativa e retribuzioni basse per i lavoratori under 35 determinerà un ritiro dal lavoro solo per vecchiaia, con importi pensionistici prossimi a quello di un assegno sociale. Una situazione che sarà socialmente insostenibile».

Per i lavoratori in partita iva, sempre con permanenza fino al 2057 e un ritiro a 73,6 anni come visto sopra per i dipendenti, l’importo dell’assegno pensionistico ammonterebbe a 1.650 euro lordi mensili (1.128 al netto dell’Irpef), valore che equivale a 3,3 volte l’importo dell’assegno sociale.

«Una stima – ha aggiunto Alessandro Fortuna, consigliere di presidenza con delega alle politiche occupazionali e previdenziali – che evidenzia la grave distorsione del sistema pensionistico, così come attualmente definito, che non soltanto proietta nel tempo le diseguaglianze reddituali, rinunciando a qualsivoglia dimensione redistributiva, ma addirittura risulta punitivo verso i lavoratori con redditi più bassi, costretti a permanere nel mercato del lavoro (al di là dell’anzianità contributiva) per tre o addirittura sei anni più a lungo dei loro coetanei con redditi più alti e ad una maggiore stabilità lavorativa».

Secondo l’ultimo rapporto Eurostat, la spesa pensionistica in Italia rappresenta il 17,6% del PIL nel 2020, il secondo più alto nell’Unione europea dopo la Grecia, e molto superiore alla media dell’Ue, del 13,6%. «Anche le stime Ocse – ha rilevato Pisani – confermano la tendenza di aumento dell’età pensionabile, che allungherà sempre di più la vita lavorativa. Per i giovani entrati nel mondo del lavoro nel 2020 all’età di 22 anni in Italia si prevede che raggiungeranno l’età pensionabile solo a 71 anni, il dato più alto tra i principali Paesi europei».

Pisani ha anche sottolineato il divario retributivo tra giovani lavoratori e la popolazione lavorativa generale: «Nel 2021, i lavoratori under 25 hanno ricevuto in media 8.824 euro, il 40% della retribuzione media complessiva, mentre i lavoratori tra i 25 e i 34 anni hanno ricevuto in media 17.076 euro, il 78% della retribuzione media. Per di più, uno scarto retributivo consistente si manifesta tra le donne e gli uomini giovani lavoratori, con un divario che si amplia nel tempo».

Tutti i limiti del “contributivo puro”

La dimostrazione, in sostanza, di come il modello puramente contributivo sia sostenibile solo se inserito in un mercato del lavoro basato su stabilità e crescita retributiva. Variabile che, invece, è smentita dai dati secondo cui, nel 2021, più di un lavoratore under 35 su quattro abbia percepito una retribuzione annua inferiore a 5.000 € e dalla riduzione, tra il 2011 e il 2021, della quota di giovani con contratto a tempo indeterminato passata dal 70,3% al 60,1%. Al tempo stesso, sempre nell’arco di dieci anni, è cresciuta l’incidenza dei contratti a tempo determinato e quella dei contratti atipici passata dal 29,6% al 39,8%. Una realtà inconciliabile con un sistema che per consentire trattamenti dignitosi necessita di carriere a contribuzione piena e con crescita retributiva.

«Alla luce di questi dati, come Consiglio nazionale dei giovani – ha proseguito Fortuna – continuiamo ancora una volta a rivendicare l’introduzione di una pensione di garanzia per i giovani che preveda strumenti di sostegno e copertura al monte contributivo per i periodi di formazione, discontinuità e fragilità salariale dei giovani». Interventi cui dovranno accompagnarsi, se non si vuole ignorare il rischio di povertà cui sono esposte intere generazioni, modifiche strutturali che consentano un acceso stabile e di qualità nel mercato del lavoro restituendo, peraltro, sostenibilità a un modello previdenziale a scambio generazionale.

«Questa tendenza – ha concluso Maria Cristina Pisani – è inoltre preoccupante per la società nel suo complesso, minacciando la competitività e il benessere futuro del nostro Paese nei prossimi anni. Abbiamo bisogno di un dibattito nazionale più aperto e inclusivo sulle pensioni. È una questione di giustizia intergenerazionale e di sostenibilità del nostro sistema sociale».

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