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Massimo Sorrentino, tutti i colori del jazz

Incontro con il chitarrista in occasione dell'uscita del suo album “Corde a colori”. «Ma l'Italia offre poco spazio alla musica strumentale»

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Giunge in queste ore sui tavoli della redazione Corde a Colori, il nuovo disco del chitarrista jazz Massimo Sorrentino. Un album strumentale di dodici brani, dieci originali e due cover, realizzati insieme al bassista Daniele Sorrentino (suo fratello), al pianista Andrea Rea, con la partecipazione di Luigi del Prete, alla batteria in From the Sea to the Sky. Un disco caleidoscopico forgiato attraverso influenze diverse tra loro: da Pat Metheny, Mike Stern, Beatles, fino a Miles Davis e Chopin.

Grazie a modelli così importanti, a una vena creativa fertile e versatile e all’apporto degli altri musicisti, in Corde a colori risuonano varie sonorità, ritmi, melodie e contaminazioni stilistiche che fanno di questo concept album un crossover riuscito e godibilissimo all’ascolto, solo in parte etichettabile come jazz. Infatti, come lo stesso Massimo Sorrentino spiega: «L’album è diviso in quattro parti ben distinte, con l’obiettivo di esplorare la quantità e la qualità sonora del mondo chitarristico. Tali differenze sonore e stilistiche vengono scandite dalla divisione del disco in quattro colori (bianco, verde, rosso e blu) a cui sono stati dedicati tre composizioni con l’obiettivo di rispecchiare l’emozione che ogni colore può provocare».

In occasione della pubblicazione del video From The Sea to The Sky, lo abbiamo incontrato per conoscerlo meglio.

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Caro Massimo, ben trovato. Chi sei e come nasce l’idea di Corde a Colori.

«Piacere mio e vi ringrazio per questa intervista. Sono un musicista-chitarrista pescarese (ci tengo sempre a sottolinearlo), con una formazione più che altro jazzistica, ma questo negli anni non mi ha precluso di avvicinarmi ad altri generi. Anzi, forse è proprio grazie al jazz che ho affinato il gusto e la curiosità di immergermi in vari ambiti. La voglia del confronto con altri stili musicali ha innescato l’idea di questo mio terzo lavoro discografico. Si tratta di un progetto piuttosto ambizioso: è un “concept-album” diviso in quattro parti a ognuna delle quali ho assegnato un colore che potesse ispirare la caratteristica sonora della chitarra. Quindi per certi aspetti c’è anche una ricerca della simbiosi che può scaturire tra un suono e un colore. Ad esempio, la prima parte del disco che è predominata dal “bianco”: mi ha ispirato composizioni eseguite solo con la chitarra acustica; questo perché il bianco mi suggerisce un approccio alla semplicità, all’essenziale. Cosa diversa invece con la parte del disco dedicata al “rosso”: in questo caso il riferimento è andato al teatro (luogo che ho frequentato molto come musicista), alle sue poltrone e i grandi sipari rossi, quindi, i brani creati e arrangiati hanno risentito molto delle suggestioni legate ai grandi ensemble orchestrali. Più in generale, direi che questo parallelismo con i colori mi ha dato la possibilità di esplorare la quantità e la qualità sonora della chitarra».

Qual è la peculiarità di questo album rispetto ai precedenti?

«È incentrato molto su me stesso, non per una smania di narcisismo, ma per una necessità di introspezione e di ricerca sul mio modo di comporre e sul ruolo della chitarra. Negli altri album ho dato più importanza all’approccio jazzistico, in cui è fondamentale dare spazio agli assoli di vari strumenti e con strutture musicali ben precise. In questo album invece, a parte in alcuni momenti in cui ho coinvolto degli special guest, ho deciso di suonare spesso da solo, arrangiando anche brani per una grande orchestra: in questo caso cercando di creare delle atmosfere quasi da colonna sonora, che potessero immergere l’ascoltatore, e me stesso, in suggestioni ora inquietanti, altre volte maestose, così come malinconiche oppure oniriche. I momenti delle nostre giornate spesso sono scandite e condite da dinamiche che si sposerebbero benissimo con una musica che abbiamo ascoltato in un film. È un po’ ciò che ho cercato di ricreare con questo album: suonare una colonna sonora della mia vita».

Sei un musicista eclettico e versatile ma la tua passione è il jazz: un genere molto vario ma considerato “di nicchia” rispetto al pop, alla trap music, la musica più commerciale che attualmente domina la scena. Come ti collochi e che spazio trovano il jazz e la musica che tu proponi, attualmente, in Italia?

«Forse il jazz rappresenta ancora un porto sicuro per un musicista. Nel senso che non ha bisogno di scendere a compromessi con le dinamiche e le aspettative degli altri generi musicali, dove a farla da padrone vi sono anche altri aspetti. Ad esempio, difficilmente un jazzista curerà così tanto il proprio look come lo fa un cantante pop o un rapper. Anche l’aspetto creativo credo sia più vasto: un jazzista non avrà mai l’ossessione di comprimere in tre minuti un suo brano, per farlo passare in radio».

«In questo senso direi che nel jazz si è anche un po’ più liberi, meno vincolati dalle mode del momento. Nello specifico penso che in Italia ci si debba un po’ ritagliare degli spazi per la musica strumentale: si deve essere spesso manager di sé stessi. Questo implica più energie e sacrifici, ma a volte anche più soddisfazioni».

Corde a Colori non è il tuo primo album

«Il mio primo album ormai risale al 2006: si chiama “La notte dei tempi viventi”, seguito poi da “Intorno al futuro” nel 2012. In questi lavori c’è sempre stata la collaborazione con mio fratello Daniele, il quale ha un vissuto che lo vede da anni al fianco di artisti di spessore internazionale: da Stefano Di Battista a Joe Barbieri, passando per Alex Britti e Sylvain Luc, Enrico Rava, Greg Hutchinson, Paco Sery…». Stesso discorso vale per il bravissimo pianista Andrea Rea, col quale ho condiviso molte esperienze musicali, conoscendoci da oltre 20 anni».

«Ecco, poter contare su musicisti di questo calibro per i miei lavori è stato sempre una fonte di ispirazione e di crescita, che inevitabilmente ha contribuito a migliorare il mio bagaglio tecnico e culturale, quando poi si è trattato di dovermi mettere io al servizio dei lavori di altri artisti, per il teatro, cinema o nei dischi di colleghi. In fondo credo sia una prerogativa del jazz: condividere sensazioni e improvvisazioni, da poter poi tramandare in altri contesti. Una contaminazione nel senso più alto del termine».

Parlaci del singolo estratto From the Sea to the Sky.

«Questo brano rappresenta per me un senso di cambiamento, di evasione. È un sogno verticale, una sorta di “tuffo al contrario”: un tuffo verso il cielo, come suggerisce il titolo.
Inoltre è anche il brano che conclude l’album, quindi ha una grande importanza per me, perché in generale sono sempre affascinato dai finali di un qualcosa. Nella vita così come nell’arte. In questo caso appunto volevo dare l’idea di una fuga verso l’alto. Infatti musicalmente il brano inizia con atmosfere calde, una melodia che strizza l’occhio al Brasile. Ma come spesso accade, la calma e la tranquillità di un momento, devono cedere il passo all’inquietudine e alla curiosità del non adagiarsi in un luogo troppo rassicurante. Da qui il bisogno di dare un brusca sterzata a metà brano, con sonorità elettroniche e con ritmiche frenetiche, che dessero l’idea di un riemergere da quel mare calmo iniziale».

«Tale percorso stilistico è stato possibile grazie al talento di due special guest: mio fratello Daniele al basso e Luigi Del Prete alla batteria. Inoltre, proprio con Luigi voluto realizzare una ulteriore versione, una bonus-track ed un video che usciranno nelle prossime settimane. Del Prete, oltre ad essere un amico di vecchia data, è uno straordinario jazzista, apprezzato ormai da anni nel panorama europeo. Vanta collaborazioni con giganti come Benny Golson, Di Battista, Bosso, Deidda… Il suo modo di suonare così brillante e ricco di idee ha dato una spinta incredibile a From the sea to the sky».

Attendiamo l’uscita del videoclip, allora. Prossimi progetti e concerti?

«Attualmente sono impegnato nell’editing del nuovo singolo e del video, perché in realtà vuole essere anche una sorta di “spoiler” di ciò che sarà la mia nuova formazione in trio con Daniele e Luigi. Con loro conto di essere in giro questa estate nei vari festival jazz per eseguire alcuni brani del disco, oltre a standard pensati per questo trio. Inoltre, sto incidendo e lavorando ad alcuni progetti, ancora in fase embrionale, di musica classica, e ad un nuovo gruppo dalle venature rock/fusion: in alcuni di questi casi non solo come chitarrista ma anche in veste di produttore o arrangiatore. Alla fine, si ritorna al discorso di prima: il bello dell’arte dell’improvvisazione, forse non solo nel mio caso, è che innesca una insaziabile curiosità verso tutta la musica».

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Giuseppina Brandonisio
Giuseppina Brandonisiohttps://musicheculture.altervista.org/
Giornalista pubblicista, conduttrice radiofonica, addetta agli uffici stampa, consulente per la comunicazione, saggista, nasco a Bari, ma lascio la mia città natale e la professione di maestra per trasferirmi a Roma. Studio all’Accademia del giornalismo musicale, mi laureo in Scienze della Comunicazione, conseguo la Laurea Magistrale in Editoria e Giornalismo, con lode. Da allora, mi divido tra il lavoro di cronista, direttore o vicedirettore responsabile di testate on line, caporedattrice, conduttrice di giornali radio, e la conduzione di trasmissioni musicali, di cui sono anche autrice. Apro e curo pagine “social” e lavoro per diverse testate, locali e nazionali, generaliste o musicali. Nel 2001 fondo anche un mio blog, Musiche & Culture. Esordisco giocando, nel giornalino della scuola elementare, e sogno il mio futuro professionale ascoltando la radio ma… per la cronaca, mi impegno a diventar concreta, attenta e scrupolosa.

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