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Informazione: l’essenzialità fa sempre la differenza tra capire e curiosità morbosa

Notizia è la lotta alla mafia, non la cartella clinica del boss. Ecco perché i giornalisti devono differenziarsi dal gossip dei social media

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Puntuale come gli auguri di Natale, lo tsunami degli opinionisti da tastiera si è abbattuto sulla notizia clou del periodo, ovvero l’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro, e ha raso al suolo i barlumi di un ragionamento sugli strumenti più efficaci per la lotta alla mafia che l’accaduto aveva appena fatto intravedere. Un disastro completato con la ormai cronica difficoltà della stampa di marcare con assoluta nettezza, tramite l’analisi approfondita e la verifica puntuale, la differenza tra l’informazione professionale, caratterizzata dal rispetto sempre e comunque delle regole deontologiche, e gli artifici più penetranti di una certa comunicazione, che sfruttano la capacità dei social media di alimentare curiosità morbosa per ottenere visibilità e consenso.

Sono passate solo poche ore dall’arresto, che l’attenzione mediatica si è subito spostata dall’attività criminale alla cartella clinica del boss. Divenute note le condizioni di salute che lo affliggono, la nutrita équipe di “sanitari virtuali” che si è improvvisata dietro gli schermi dei computer ha passato al setaccio i dati clinici. Spinta soprattutto dalla copiosa produzione di analisi di esperti o presunti tali, che comunque non risultano aver mai avuto contezza diretta dello stato delle cose, che hanno trovato spazio non solo nei salotti tv, ma anche sugli organi di informazione. Come, purtroppo, sempre accade nei casi di cronaca che maggiormente attraggono l’attenzione dell’opinione pubblica. Anche arrivando al confronto fra il tipo di tumore per il quale Messina Denaro necessita di cure e le varie patologie oncologiche che hanno colpito altri personaggi, assurti all’attenzione dell’opinione pubblica per gesta ben più memorabili di quelle di un capo di Cosa Nostra.

A questi primi segnali dello sconfinamento dal campo della cronaca dei fatti a quello della curiosità morbosa, è dovuto intervenire il Garante per la protezione dei dati personali per «richiamare l’attenzione di media, siti web e social media al rigoroso rispetto del principio di essenzialità fissato dalle Regole deontologiche per l’attività giornalistica».

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Uno smacco, la categoria dei professionisti dell’informazione, questo richiamo arrivato dall’esterno all’osservanza del Testo Unico dei doveri del giornalista. Una categoria, va detto, nella quale anche esponenti di primo piano molto noti all’opinione pubblica risultano inadempienti all’obbligo di legge della formazione continua, alla quale sono tenuti tutti gli iscritti ad Ordini, Albi e Collegi professionali, indistintamente. Passibili, in caso di inadempimento anche solo parziale, di sanzioni disciplinari che vanno dal richiamo alla sospensione per alcuni mesi dall’esercizio della professione. Una professione in cui non pochi non hanno alcun pudore nell’esprime pubblicamente la propria insofferenza verso i corsi di aggiornamento, nonostante che nel volgere di pochi lustri si sia passati dalla stampa a caldo al desktop publishing, dalla linotype a Xpress, dalla macchina per scrivere al pc, dai dimafoni a internet, dalla posta pneumatica allo smartphone, dal tavolo luminoso ai sistemi di gestione dei contenuti…

Nulla, in verità, rispetto allo smacco alla propria dignità e ai propri sentimenti che hanno sicuramente sentito sulla loro pelle i pazienti oncologici e i loro cari, che si sono trovati anche a leggere le dissertazioni di chi si è spinto a creare una hit parade dei tumori da lui ritenuti più letali, ipotizzando anche i tempi dell’evoluzione fatale.

La domanda

Definire Matteo Messina Denaro semplicemente un «paziente oncologico» e concentrarsi esclusivamente sulle brutalità della mafia avrebbe tolto qualcosa all’opinione pubblica? Una volta spiegato che il boss era in clinica per un tumore, le ulteriori informazioni sanitarie diventano un elemento essenziale rispetto all’approfondimento delle verità sui fatti di mafia delle quali il boss è depositario?

Da giornalista che quest’anno (l’anagrafe è inappellabile) taglierà a giugno il traguardo dei 40 anni dalla pubblicazione del proprio primo articolo su un quotidiano, penso che noi operatori professionali dell’informazione dovremmo in ogni caso, nessuno escluso, rispondere alla domanda – sempre e comunque la stessa – che quotidianamente ci poniamo nel nostro lavoro. Ce la poniamo (o ce la dovremmo porre) sempre quando affrontiamo un fatto giornalisticamente rilevante analizzandolo con l’ottica del rispetto della deontologia professionale, indipendentemente dalla evoluzione degli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione per il nostro lavoro.

La domanda è: questo elemento che ho acquisito aggiunge qualcosa alla cronaca e all’analisi del fatto ed è utile all’opinione pubblica per formarsi un’opinione oppure risponde solamente a curiosità, morbosità, esigenze editoriali di visibilità sui social media o sensazionalismi che nulla hanno a che vedere con la narrazione e la critica giornalistica?

Personalmente, nel caso in discussione, riguardo alla diffusione di alcuni particolari clinici della malattia del boss e ad alcuni dettagli molto approfonditi io mi sono dato questa risposta: no, non aggiungono nulla alla cronaca, bensì servono solo per una certa politica editoriale che sfrutta la curiosità morbosa per ottenere visibilità sui social media, ma che va contrastata per marcare la differenza tra il giornalismo da una parte (che non deve aver bisogno che il Garante per la privacy gli rammenti che esiste la deontologia) e dall’altra certe tecniche spregiudicate di comunicazione “istintuale”.

Marcare la differenza

Questo tema del marcare la differenza tra giornalismo e social media non dovrebbe essere indifferente a noi giornalisti, se vogliamo mantenere (ma sempre più spesso recuperare) la credibilità dell’opinione pubblica nella nostra funzione sociale, sancita anche dalla Costituzione della Repubblica italiana. Il sonno della ragione – ovvero l’abbandono del dogma della verifica delle fonti e dell’approfondimento, rincorrendo invece l’ansia da prestazione da social per ottenere like e condivisioni – mai come oggi produce mostri. Come ha dimostrato in questi giorni la palese assurdità del caso, divenuto in breve tempo un mediaticamente ridondante copia-incolla, della bidella pendolare da Napoli a Milano. Tanto palese l’assurdità che sarebbero bastati a scoprirla due clic sui siti degli operatori ferroviari e una telefonata alla scuola milanese per informarsi direttamente alla fonte (ah, le vecchie abitudini imparate a suon di pezzi cestinati dal caposervizio, cronista di lungo corso!).

Magari sarebbe bastato anche solo il buon vecchio “fiuto” del cronista, doverosamente sospettoso del moltiplicarsi dei “fenomeni da circo”: dalla laurea record all’imprenditore nato dal nulla, dal rider felice di pedalare quanto per una tappa del Giro d’Italia al ristoratore costretto a chiudere perché non si trova chi abbia voglia di lavorare (immagino la valanga di clienti alla porta, bisognosi di plotoni di camerieri). Episodi (o meglio, leggende metropolitane) che hanno come denominatore comune il tentativo (e qui occorrerebbe capire da parte di chi) di imporre la narrazione di un Paese in cui si può essere felici, a patto però di rinunciare a vivere come uomini e donne liberi.

Distrazione di massa

Il tema della “distrazione di massa” fatta ad arte riporta al punto di partenza dell’analisi: concentrare oltremodo l’attenzione sulla cartella clinica di un boss arrestato distoglie l’attenzione dell’opinione pubblica dal più importante tema della essenzialità della lotta alla mafia e della necessità di assicurare alla giustizia tutti i padrini.

Una distrazione contro cui deve vigilare chi ha il dovere deontologico di riportare all’opinione pubblica la verità sostanziale dei fatti e di esercitare il diritto di critica. Senza timori reverenziali o, peggio, accondiscendenze verso le strumentalizzazioni politiche sui fatti di cronaca.

Può l’informazione, quella che un tempo si definiva il “cane da guardia” del cittadino nei confronti del potere politico, tollerare senza battere ciglio che un capo di governo si attribuisca il merito del successo investigativo che ha portato all’arresto di un latitante? E che attribuisca, di contro, ai governi succedutisi negli ultimi 30 anni la responsabilità di non esservi riusciti, per di più lasciando intendere che in questi tre decenni abbia sempre e solo governato la parte politica avversa?

L’Italia sembra divenuto un Paese che ha perso ogni capacità di memoria, tanto da dimenticare che in 30 anni hanno governato più volte a turno tutti (destra, sinistra, centro e anche tecnici) e che per diversi anni molte delle personalità che hanno oggi ruoli di governo, a cominciare dalla stessa Presidente del Consiglio, hanno già fatto parte di governi precedenti ed hanno avuto ruolo di responsabilità nelle maggioranze parlamentari che si sono succedute.

Siamo un Paese che ha anche perso la capacità di fare un ragionamento approfondito e pure di avere le più elementari nozioni di educazione civica: basterebbero queste ultime per ricordarsi che, per il principio costituzionale della separazione dei poteri, le indagini non sono condotte dai politici ma dalle forze dell’ordine sotto la direzione della magistratura. Che è un potere autonomo e indipendente dagli altri due poteri: quello esecutivo (il governo) e quello politico (il parlamento). E questi ultimi due poteri, a loro volta, non comandano le indagini e nulla hanno a che fare con l’azione investigativa di magistratura e forze dell’ordine.

I social si sono scatenati anche sui trent’anni di indagini per scoprire che i covi del superlatitante erano a due passi da casa sua. Eppure, nulla c’è di più normale: i boss latitanti non lasciano mai la zona dove, in virtù del proprio “rango”, possono esercitare il loro potere e godere di molte protezioni. Piuttosto che evidenziare l’ovvietà della latitanza a due passi dal proprio centro di potere, non sarebbe il caso di concentrare l’attenzione dei cittadini sulle complicità e le connivenze che hanno permesso al boss di sfuggire ai controlli per così tanto tempo?

A chi altri spetta il compito di riportare l’opinione pubblica alla conoscenza dei temi e all’analisi dei fatti se non ai giornalisti? Le tecnologie cambiano, gli strumenti operativi si evolvono. Ben vengano quindi gli strumenti elettronici di diffusione delle notizie. Ma i principi deontologici che distinguono l’informazione dalla propaganda restano gli stessi. Basta ricordarsene.

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Massimo Marciano
Massimo Marcianohttp://www.massimomarciano.it
Fondatore e direttore di Metropoli.online. Giornalista professionista, youtuber, opinionista in talk show televisivi, presidente e docente dell'Università Popolare dei Castelli Romani (Ente accreditato per la formazione professionale continua dei giornalisti), eletto più volte negli anni per rappresentare i colleghi in sindacato, Ordine e Istituto di previdenza dei giornalisti. Romano di nascita (nel 1963), ciociaro di origine, residente da sempre nei Castelli Romani, appassionato viaggiatore per città, borghi, colline, laghi, monti e mari d'Italia, attento osservatore del mondo (e, quando tempo e soldi lo permettono, anche turista). La passione per la scrittura è nata con i temi in classe al liceo e non riesce a distrarmi da questo mondo neanche una donna, tranne mia figlia.
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