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Per Facebook siamo tutti uguali… a Trump

Oggi Facebook, con la scusa della lotta a violenza e terrorismo, chiede ai suoi utenti di segnalare se conoscono o sono in contatto con un estremista, senza spiegare come farà a verificare tra possibili vendette personali e veri pericoli

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Cosa hanno in comune l’azione legale che Donald Trump, sostenuto dall’America First Policy Institute, sta tentando contro Facebook e i milioni di avvisi indiscriminati di sospensione dalla pubblicazione di link e di commenti che gli utenti fb hanno ricevuto nei giorni scorsi senza nessuna spiegazione? È semplice: che tu sia un ammiratore di Hitler come Trump o una tranquilla signora che bada ai suoi gattini e li pubblica online, per Facebook sei un semplice suddito che deve eseguire gli ordini.

L’unica differenza è che se hai molto denaro puoi impegnarti in una causa legale contro le decisione del social di Zuckerberg mentre noi persone normali quasi sempre lasciamo perdere e rinunciamo a pubblicare. Facebook è come uno Stato sovrano esteso lungo tutto il mondo, le cui regole, tutt’altro che cristalline, prevalgono anche sulle leggi nazionali del Paese dell’utente. È storia vecchia, dirà qualcuno, e invece è un mondo ancora sconosciuto dove prevale l’arbitrio nascosto dietro la nostra accettazione, il più delle volte data senza leggere, ma è colpa nostra fino a un certo punto visto che si tratta di centinaia di pagine, al momento della registrazione sul social.

Trump, bannato per le frasi scritte mentre i suoi sostenitori davano l’assalto al Congresso Usa, è stato sospeso in via definitiva da Twitter e per due anni da Facebook. Molte volte bloccato anche da Google, ha cercato un sostituto dei social per far conoscere al mondo i suoi pensieri. Prima tramite un blog non certo di grande impatto come visualizzazioni e poi facendo sapere in giro che stava costruendo una sua piattaforma, un suo social network. Visti gli scarsi risultati ottenuti, ha infine presentato una class action sostenendo che Facebook, Twitter e YouTube hanno violato i suoi diritti del Primo Emendamento.

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Non bisogna avere simpatia né umana né politica verso Trump per inserire la sua causa in un contesto che ci riguarda tutti: la già citata contraddizione tra le leggi “universali” di Facebook e quelle dei Paesi in cui risiedono i suoi utenti. Nel suo ricorso Trump sostiene che fb non è più un’azienda privata come sostiene Zuckerberg ma un “attore statale”, le cui azioni sono dunque sottoposte alle leggi statunitensi. Insomma io, come tanti altri, che mi considero progressista, mi trovo in questa critica al fianco di un personaggio come Trump che delle sue simpatie per la destra estrema, a cominciare dai suprematisti bianchi, non ha mai fatto mistero.

Sul New York Times l’editorialista Kara Swisher commenta: «La maggior parte degli esperti di giurisprudenza che hanno reagito al caso ha notato che sforzi simili per trasformare i giganti della tecnologia in entità governative sono miseramente falliti e hanno concluso che si tratta di un tentativo frivolo di attirare l’attenzione». Il NYT, da sempre avversario di Trump, divide il problema in due parti, affermando sostanzialmente che il governo non può mettere sotto controllo il social ma il parlamento, il Congresso, dovrebbe trovare una maggioranza bipartisan per affrontare una vasta gamma di questioni come il potere monopolistico e la mancanza di risorse per i regolatori che devono monitorare le potenti società digitali.

In sostanza: Trump ha commesso atti che violano le leggi statunitensi e a queste deve rispondere così come Facebook deve rispondere delle sue azioni alle leggi dei Paesi in cui agisce come qualsiasi imprenditore. A questo punto, riportando sempre a noi comuni mortali le riflessioni sui sistemi universali, ci chiediamo: perché milioni di utenti che non hanno incitato alla violenza e all’odio nei giorni scorsi sono stati quasi tutti bloccati per qualche ora? L’unica risposta sembra quelle delle mamme esasperate del secolo scorso dinanzi al figlio disobbediente: perché sì, è così e basta. Nel senso che così ha deciso Facebook e non c’è appello.

Forse si è trattato semplicemente di un problema tecnico. Per il quale nessuno si è scusato, tanto il servizio è gratuito e la merce sei tu, utente, i cui dati servono all’industria pubblicitaria. Manipolazione, disinformazione, paura e disprezzo sono endemici nei social media, ma le piattaforme hanno delegato gran parte del lavoro di moderazione ad appaltatori, evidentemente non all’altezza del ruolo, e a software di intelligenza artificiale fallibili.

L’algoritmo era già stato modificato due anni fa in nome del contrasto alla disinformazione. Oggi Facebook, con la scusa della lotta a violenza e terrorismo, chiede ai suoi utenti di segnalare se conoscono o sono in contatto con un estremista, senza spiegare come farà a verificare tra possibili vendette personali e veri pericoli.

Ecco perché l’atteggiamento verso Trump ci riguarda tutti quanti, perché bannare lui è stata una sorta di foglia di fico per i fallimenti di Facebook nel controllo in tempo reale e veritiero dei post, rendendo possibile che la segnalazione di un utente bastasse a bloccare utenti e rimuovere post. Facebook è un’azienda il cui potere unilaterale sulla vita pubblica è diventato insostenibile già da molto tempo e qualsiasi regolamentazione a lungo termine dovrà comportare controlli molto più severi sul suo potere.

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Gianluca Cicinelli
Gianluca Cicinelli
È stato a lungo direttore dell’informazione di Radio Città Futura di Roma. Ha collaborato con quotidiani e periodici nazionali e si occupa principalmente d’inchieste sulle zone d’ombra tra servizi segreti, criminalità organizzata e istituzioni. Ha pubblicato due libri sul rapimento di Davide Cervia. Propone spesso corsi di formazione giornalistica popolare. Ha realizzato la video inchiesta “Coperti a Destra” sulla strage di via Fani del 16 marzo 1978. Attualmente collabora con la Lumsa di Roma.
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