di Marco Pugliese
Docente di matematica, giornalista, analista economico, presidente di OpenIndustria
Chi parte ad analizzare lo scenario iraniano e parla di pace sbaglia, qui è in gioco il controllo. Dietro i raid a Teheran, dietro l’ombra del Mossad e le operazioni chirurgiche contro scienziati nucleari iraniani, si cela una dottrina invisibile ma ferrea: non far esplodere la regione, ma tenerla sempre sul punto di esplodere.
Da anni, Tel Aviv non ragiona più in termini di guerra e pace. Ragiona come un attore di guerra sistemica a bassa intensità. Vuole che Hezbollah sia abbastanza forte da essere riconosciuto, ma mai così forte da diventare una minaccia esistenziale. Che l’Iran parli di uranio arricchito, ma non arrivi mai all’arma finale. Che Gaza sia contenuta, ma mai pacificata: una fonte permanente di legittimazione militare e politica.
Ecco perché non cerca soluzioni definitive. Perché il conflitto permanente è la condizione che garantisce a Israele la libertà d’azione: sul piano interno e in politica estera.
Diversi analisti militari (anche ex del Mossad, come Yossi Melman) sostengono una verità mai scritta nei comunicati ufficiali: Israele ha costruito una strategia non per vincere una guerra, ma per non perdere la supremazia. Una teoria interna, non pubblica, afferma che: «L’Iran è il nemico perfetto: non è abbastanza forte da scatenare una guerra diretta, ma è abbastanza minaccioso da giustificare ogni azione offensiva».
Una formula perfetta per: tenere gli Stati Uniti agganciati al fronte mediorientale (contro la loro volontà); tenere alta la spesa per la difesa (con tecnologie vendibili); cementare internamente governi di unità nazionale anche tra destra e centro.
Israele non ha mai ammesso ufficialmente di possedere armi nucleari, ma le ha. Secondo fonti dell’intelligence occidentale, sarebbero tra le 80 e le 100 testate operative. L’ambiguità strategica non è un caso, ma una scelta: non dichiarare serve a non essere vincolati da trattati, ma a mantenere la minaccia implicita. È la versione mediorientale della “dottrina Samson”: se ci buttate giù, ci portiamo tutti con noi.
L’intesa è storica, ma non è mai stata cieca. Israele si muove da alleato, ma spesso agisce contro i desideri tattici degli Usa. E lo fa sapendo che Washington, per motivi politici interni e per la pressione delle lobby, non può davvero mollare Tel Aviv, anche quando ne critica le operazioni. È il gioco del “bad cop”, in cui Israele colpisce mentre l’America media. Una dinamica che oggi serve anche all’Arabia Saudita per negoziare sicurezza con Biden e normalizzazione con Netanyahu.
Israele non vuole la guerra totale. Ma vuole essere l’unico Stato nella regione che può decidere quando farla, come farla e con chi. Il vero obiettivo non è distruggere l’Iran. È mantenere l’Iran abbastanza pericoloso da giustificare ogni intervento, e abbastanza contenuto da non dover mai rischiare un conflitto simmetrico.