Ferdinando Fedele, originario di Nocera Inferiore, si è stabilito a Roma da diversi anni. Ha intrapreso un percorso sperimentale che lo ha portato a esplorare nuovi linguaggi e tecniche, tra cui pittura su materiali diversi, scultura, installazioni, incisioni e fotocalcografie. Lo incontriamo in occasione della preparazione della mostra “Io sono Tu sei” che lo vedrà protagonista insieme a Cinzia Bevilacqua a Roma, sotto la curatela del professor Claudio Strinati e l’assistenza alla curatela della dottoressa Valentina Pedrali: dal prossimo 18 luglio fino al 31 luglio (e successivamente anche dal 1º settembre all’8 settembre).
La mostra si terrà alla Galleria “La Pigna”, in via della Pigna 13/A, all’interno di Palazzo Maffei Marescotti (sede Ucai – Unione cattolica artisti italiani), che sembra richiamare gli ospiti ad essere mediatori di mistero, nella certezza che tutta l’arte debba continuare ad essere sacra nonostante i nostri tempi desacralizzati.
Nella exhibition romana con Cinzia Bevilacqua, Ferdinando Fedele proporrà una performance interattiva che vi consigliamo di non perdere, rendendo i visitatori parte integrante dell’opera stessa: coinvolgerà infatti il pubblico nel fotografare e farsi fotografare, creando una riflessione sulla distorsione dell’immagine e sul ruolo centrale che i social media hanno assunto nella costruzione di identità alterate. Ne parla nel video che riportiamo in fondo alla sua intervista.
Con la sua esibizione, Fedele intenderà sovvertire l’idea tradizionale di Narciso: lo specchio non è più il fiume in cui si rifletteva l’immagine, ma diventa lo sguardo dell’altro. La dinamica del selfie, che passa dal riflettere sé stessi a farsi ritrarre da qualcuno, ribalta il rapporto con l’immagine personale, introducendo un dialogo tra la propria percezione e la visione altrui.
L’arte di Ferdinando Fedele combina l’uso di materiali eterogenei con una ricerca concettuale volta a ridefinire il rapporto tra l’opera e lo spettatore. Dal 1993 Fedele insegna nelle Accademie di Belle Arti di Sassari, L’Aquila, Milano e Napoli, e dal 2013 è docente di tecniche dell’incisione/grafica d’arte all’Accademia di Belle Arti di Roma. La sua ricerca artistica si focalizza sui modi attraverso i quali è possibile stabilire una connessione dialettica tra la tradizione incisoria, intesa tanto in termini storici ed iconologici che in senso tecnico, e la complessa sfera dei processi collaterali ad essa, a cui afferiscono anzitutto la fotografia ed ogni sua filiazione ulteriore, per un arricchimento di entrambe che si concretizzi in un’idea differente di contemporaneità rispetto al proprio linguaggio.
Le sue sculture sono spesso caratterizzate da una forte presenza materica e da forme evocative. C’è un concetto unificante o un’emozione predominante che ha cercato di esprimere attraverso le sue nuove creazioni per questa mostra?
«Comprendo perfettamente che le mie opere plastiche hanno i connotati della scultura, ma non mi sento scultore, almeno nel senso significativo del termine; mi sento pittore, anche se sono fortissimamente attratto dalla scultura, come osservatore. Sono delle cose che evocano un’idea che sottolinea paradossalmente la bidimensionalità: per disegnarle, dipingerle, fotografarle, filmarle, evocarle, eccetera. Mi sento pittore, anche se le mie opere/oggetti assomigliano a sculture; per me sono e rimangono pitture, anche solo per la stessa idea di pittura».
«Mi sento un pittore che ha apparentemente tradito la pittura stessa, non utilizzando gli strumenti propri della pittura. Ma spero sempre di poter tornare a riutilizzarli. Nel frattempo, preferisco alimentare idealmente il concetto di pittura. Dipingere un quadro è una faccenda seria, implica sempre un confronto con ciò che mi ha portato a riconoscere me stesso sulla sua superficie. In essa si fondono diversi sistemi di pensiero e di conoscenze che non derivano necessariamente dallo specifico studio dell’arte».
«Nella mia pittura (quella che appare scultura) vengono utilizzati materiali industriali semilavorati, potenziali veicoli di messaggi; vengono razionalizzati attraverso la progettazione e realizzati in sequenze, ogni opera composta è studiata per giungere ad un fine. Mi riferisco a grandi lastre di metallo, di zinco, rame, alluminio, piombo ed altro ancora, così come potremmo trattare e considerare le potenzialità e non solo i limiti che potrebbe offrirci un foglio A4».


«Le forme evocative si riferiscono alla perpetuazione di un concetto, stabilito e scelto, di un’idea, di un contesto temporale, di un luogo: mi riferisco a quell’autoritratto che Veronese si fece nel suo Convito a casa di Levi. Un tentativo di risalire individuando un indizio, da un frammento di realtà (un francobollo del 1973), attraversando tutte le fasi di un viaggio da e per».
«È stata la prima opera che ho realizzato nel mio studio a Roma a piazza Adriana, nel 1995; una tavola di legno, dotata di uno spesso telaio tamburato, con al centro, intagliato col trapano, un ovoide geometricamente irregolare. Cercavo appunto una forma geometrica irregolare, così come lo era la serie di francobolli succitata».

«Intagliando questa forma, ne ho estratto parte di essa: un rettangolo quasi quadrato ed un ovoide, appunto. La superficie della tavola è realizzata a strati che costituiscono la materia pittorica, fatta con pezzi di carta di giornale incollati, strato su strato, poi un fondo gesso acrilico, una laccatura a gomma lacca e infine la stesura di una vernice argento. Tutto questo si percepisce plasticamente.
«Sull’ovoide (reso mobile), ho incollato una stampa fotografica analogica della foto reale dell’opera del Veronese, molto ingrandita. La testa del francobollo reale invece è manipolata. Un meccanismo consente all’ovale di muoversi, quindi si può toccare, spingendolo come se fosse una sorta di porta basculante, dando la sensazione di trovarsi al cospetto di una macchina del tempo, come per attraversare quasi fisicamente lo spazio, per intraprendere un viaggio o addirittura una fuga, per ritrovarsi poi, in un luogo altro. Questa sorta di viaggio mi ha portato a rivivere quel momento, una specie di ritorno con le attuali opere che presento in questa mostra. Un elemento chiave di questa ricerca è la mostra alla Lift gallery a Roma».
Data la sua predilezione per la scultura come espressione artistica, come si integra o contrasta il suo lavoro con quello di Cinzia Bevilacqua in questa esposizione congiunta? C’è un tema che li lega?

«Come appena detto, le mie opere sembrano delle sculture, ma in realtà non sono tratte dalle mani di uno scultore tout court, forse dall’idea di scultura, quello sì. Sono forse cristallizzazioni di un pensiero astratto, un disegno, una forma chiusa, magari con delle incisioni, ma sempre pitture rimangono. Come se fosse una specie di vezzo, uno specifico status. Forse in futuro, per sintetizzare i vari aspetti della ricerca, dipingerò sul piombo. Il binomio mi attira; attualmente, con questa mostra, metto la foglia d’oro zecchino sul piombo».
«Evidentemente il mio interesse è quello di sondare l’essenza della pittura, stare fra le radici, coglierne il senso nella sostanza. Le mie opere non sono divulgative, sono e basta. È l’idea stessa che si riproduce rigenerandosi. È l’esatto polo opposto di Cinzia, e queste differenti modalità generano la qualità del dialogo per andare oltre le apparenze e soprattutto per restare umani attraverso esso. I conflitti no. E il riferimento non è casuale. È l’opposto del tema che Cinzia propone col Narciso, proponendo con la mia azione l’anti-narciso. Vuole dare valore all’importanza del dialogo come strumento di elevazione intellettuale».
Qual è la storia o l’ispirazione dietro una delle situazioni artistiche più complesse o significative che presenterà?
«Il dato di partenza è stato quello di non confrontare necessariamente i nostri lavori, quanto quello di impostare la coincidentia nel luogo espositivo per attivare una visione più sul piano ideale e concettuale. L’idea dell’azione che svolgo con i visitatori nasce proprio da questo assunto, che poi alla fine fa parte della mia storia, dal percorso che scelsi di seguire anni fa, tradendo appunto la pittura intesa come azione specifica. L’azione con i visitatori produrrà comunque un’esperienza estetica attraverso la posa, lo scatto, l’elaborazione grafica e la stampa digitale in tempo reale in galleria, durante l’evento. E le stampe saranno composte sulle pareti dello spazio in galleria».

Ha utilizzato nuovi materiali o approcci per questa mostra? Se si quali e come hanno influenzato il risultato finale?
«Presenterò (oltre alla citata azione e produzione di stampe sulle pareti principali dello spazio disponibile) su due delle pareti più piccole un’installazione a parete costituita da piccole opere che ripetono sé stesse: la testa del Veronese già citata, con dei calchi in piombo ed oro; piombo ed oro, un ossimoro, una coincidentia oppositorum sulla quale si fonda gran parte del mio lavoro. il piombo con l’ossidazione diventerà sempre più scuro, perché è un materiale instabile alla luce e all’aria, e quindi variabile, mentre invece l’oro manterrà la sua proprietà di essere sempre uguale a sé stesso; e rappresenta le nostre stesse vite, con l’auspicio di mantenere salde le nostre aspirazioni più profonde, i nostri ideali, le nostre autentiche decisioni, superando tutte le avversità, cambiamenti e trasformazioni. È quindi una riflessione sulla dialettica tra ciò che cambia e ciò che rimane uguale a sé stesso, tra la Realtà e l’Eterno».
Come spera che il pubblico interagisca con le sue opere? C’è un messaggio o un’esperienza specifica che desidera comunicare o evocare nei visitatori?
«Il pubblico si troverà di fronte e al centro di una proposta di ricerca che spero lo induca ad una riflessione più profonda sul senso dell’esistere».