Incontriamo la pittrice Cinzia Bevilacqua a poco meno di un mese dall’atteso appuntamento che la vedrà protagonista insieme a Ferdinando Fedele a Roma, sotto la curatela del professor Claudio Strinati e l’assistenza alla curatela della dottoressa Valentina Pedrali: dal prossimo 18 luglio fino al 31 luglio (e successivamente anche dal 1º settembre all’8 settembre).
La mostra “Io sono Tu sei” si terrà alla Galleria “La Pigna”, in via della Pigna 13/A, all’interno di Palazzo Maffei Marescotti (sede Ucai – Unione cattolica artisti italiani), che sembra richiamare gli ospiti ad essere mediatori di mistero, nella certezza che tutta l’arte debba continuare ad essere sacra nonostante i nostri tempi desacralizzati.
La sua arte spesso esplora il rapporto tra figura umana e natura. Quali aspetti specifici di questa interazione intende evidenziare o approfondire con le opere esposte in questa mostra?

«La figura umana nei miei dipinti è fortemente calata nel mondo reale, sia per quanto riguarda lo studio del colore sia per il contesto in cui viene inserita. Raramente si tratta di un contesto di fantasia. Attraverso i ritratti esposti in mostra, cerco un’indagine introspettiva del soggetto: prima di iniziare un ritratto, mi piace dialogare, conoscere l’animo, i desideri e le passioni della persona che sto per rappresentare, nel ritratto importante è l’aspetto fisionomico ma ancor di più quello psicologico. Il tema fondamentale della mostra è l’apparire, la vanità, il selfie, il rimando dell’immagine che vogliamo offrire a chi ci guarda».
Molti dei suoi lavori utilizzano tecniche miste. C’è una tecnica o un materiale che ha trovato particolarmente stimolante o rivelatore nella creazione delle opere per questa esposizione?
«Amo da sempre la tecnica della pittura a olio, per me la regina indiscussa su tutte le tecniche per le molteplici possibilità espressive che offre. Brevemente: consente ripensamenti in corso d’opera, permette di lavorare sul bagnato modellando con precisione, oppure di procedere con pennellate veloci, a seconda dell’effetto desiderato; diluendola parecchio, con il medium si ha un effetto “acquerello”. Di contro, ha corpo con pennellate vigorose e ricche di colore. Anche il medium è fondamentale: se è “magro”, si ottiene un effetto simile alla tempera; se è ricco d’olio, si ottiene l’effetto tipico della pittura a olio. Bisogna sottolineare l’importanza del supporto per la resa finale: sia che si tratti di tela sia di tavola, mi piace prepararli sempre a mano, con colla di coniglio e gesso da indoratore, questo perché – a seconda dello spessore o del modo in cui viene stesa l’imprimitura – l’effetto finale cambia. Mi piace anche intervenire con matite grasse sul dipinto, per una maggiore vibrazione del colore».
Considerando il contesto ospitante della Galleria “La Pigna”, che dialogo cerca di instaurare con lo spazio e con il pubblico romano?
«Esporre in un luogo carico di stratificazioni estetiche come la Galleria “La Pigna”, nel cuore di Roma, mi permette di far dialogare la mia ricerca con una città in cui il tema della rappresentazione di sé – dai busti imperiali ai ritratti barocchi – è onnipresente. Le sale raccolte favoriscono un rapporto intimo con le opere: le tele, disposte in sequenza quasi teatrale, invitano il visitatore a specchiarsi nei volti dipinti e a riflettere sul proprio uso dell’immagine nell’epoca dei social. In questo senso il pubblico romano, abituato alla coesistenza di classico e contemporaneo, diventa parte attiva del progetto, portando il discorso sulla vanità in una dimensione collettiva».
Qual è stato il momento più significativo o la sfida più grande nel processo creativo che ha portato a questa mostra?
«Dipingerne il tema senza scivolare in moralismi o cliché. Volevo parlare di vanità non come condanna, bensì come dato esistenziale: tutti, in qualche misura, vogliamo dare un rimando di noi stessi, il migliore possibile. Costruiamo la nostra maschera. La sfida è stata dunque trovare un equilibrio tra rigore tecnico e densità concettuale, evitando che la pittura diventasse semplice illustrazione dell’idea. Ho passato giorni a riflettere su quali simboli inserire od omettere, su quanta luce lasciare sul volto e quanta sullo sfondo. Se vogliamo, decidere che cosa mostrare e che cosa velare è già un atto di vanità. Questo percorso mi ha portata a interrogare anche il mio stesso rapporto con l’immagine e la visibilità».
Se dovesse scegliere un’unica opera dell’esposizione che rappresenta al meglio il suo messaggio o la sua evoluzione artistica attuale, quale sarebbe e perché?
«Scegliere una sola opera è sempre difficile, perché ogni dipinto nasce da un processo intimo e porta con sé un frammento della propria ricerca. Tuttavia, se dovessi indicare un’opera simbolica sia per il tema della mostra sia per la mia evoluzione artistica, sceglierei “La bellezza: un concetto fluido”. Si tratta di una composizione complessa, che mette in dialogo figure femminili appartenenti a epoche storiche diverse: dalle muse classiche ai volti rinascimentali, fino ad arrivare a rappresentazioni contemporanee, quasi da social media. L’intento è quello di mostrare come la bellezza non sia un concetto fisso, ma qualcosa che cambia radicalmente nel tempo, riflettendo i valori, le paure e le ossessioni di ogni epoca. Per quanto riguarda i ritratti, la scelta resta ancora più personale e delicata. Ogni volto racchiude una storia, una relazione, uno scambio. C’è sempre un momento, anche impercettibile, in cui qualcosa del soggetto emerge in modo inatteso: uno sguardo, un’ombra, un silenzio. E quel momento si fissa nella tela. È per questo che parlare di un’opera soltanto è come scegliere tra figli: ogni ritratto custodisce una verità che non può essere paragonata alle altre. Spero che queste risposte restituiscano con chiarezza il cuore del mio lavoro e aprano un dialogo vivo con chi visiterà la mostra. Vi aspetto a Roma per proseguire la conversazione di persona».











