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Italia, fuoriclasse mancati: se perdi il talento, muore il Paese

La Nazionale di calcio metafora del sistema educativo: studenti allineati, ma incapaci di creare. Non c’è ecosistema che favorisca il talento

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di Marco Pugliese
Docente di matematica, giornalista, analista economico, presidente di OpenIndustria

Se vuoi capire cosa non funziona nel sistema educativo italiano, guarda la nazionale di calcio. No, non è una metafora tirata per i capelli: è una radiografia sociale. Da una parte, la maglia azzurra che da due edizioni manca ai Mondiali; dall’altra, una scuola che forma studenti disciplinati, allineati, ma incapaci di creare, convinti che qualche anno all’estero porti consiglio. Allevati a pane ed Erasmus, la fuga, l’esilio non emancipano. La nostalgia in fondo all’animo che affiora. In mezzo, una classe dirigente che confonde il metodo con il merito, la prestazione con la passione, il controllo con la cultura.

Nel calcio giovanile italiano si insegna atletica, non tecnica. Cronometri, test fisici, tabelle. Ma nessuno che insegni a dribblare il pensiero comune. I fuoriclasse? Troppo leggeri, troppo fantasiosi. Scartati. Come se Baggio o Totti oggi venissero esclusi per “mancanza di struttura fisica”. Siamo il Paese del genio, eppure oggi il genio lo respingiamo. Le under stravincono ma in Serie A spopola l’Erasmus al contrario: stranieri mediocri per non dire scarsi.

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La scuola non è messa meglio. Abbiamo imbrigliato il talento nelle griglie di valutazione, nei report ministeriali, nei Pof e nei Ptof. Nelle rubriche. Insegniamo a rispondere, non a domandare. Abbiamo dimenticato che studiare serve a pensare, a costruire visioni. E nel frattempo ci lamentiamo per quattro compiti. Gli insegnanti impauriti, ingessati costretti ai passaggini come gli Azzurri.

E intanto, i politici fanno selfie agli eventi. Si parla di giovani, ma non si costruisce nulla per farli emergere davvero. Non c’è un ecosistema che favorisca il talento: né nello sport, né nella scuola, né nell’economia. Importiamo modelli esteri, abbiamo perso la nostra originalità, il nostro istinto mediterraneo, la nostra capacità di creare dal caos.

L’Italia della Prima Repubblica, con tutti i suoi difetti, era più competitiva. Aveva grandi visioni, idee industriali, capacità progettuale. La rendita accumulata da quegli anni – in innovazione, cultura, infrastrutture – ci ha tenuto in piedi fino al 2010. Poi il crollo. Viviamo una stagnazione mentale prima ancora che economica. Siamo tornati all’Italia arresa e vuota del Seicento. Quella che Galileo cercava di svegliare, mentre le corti si occupavano di formalismi e parrucche.

I ruoli apicali, oggi, sono troppo spesso occupati da figure piatte, senza visione, rancorose, incapaci di scommettere su qualcosa che non capiscono. Persone che temono il talento, perché lo vivono come una minaccia. Così, in ogni settore abbiamo premiato la mediocrità. Per convenienza, per quieto vivere, per paura di perdere il controllo.

Mattei scalò il mondo senza Mba (Master in business administration). Bearzot vinse i mondiali con un ragazzo come Rossi. Ma quelle generazioni studiavano soluzioni, si sacrificavano e soprattutto: osavano.

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