C’era un altro quesito, di più vasta e ampia portata rispetto a quelli stampati sulle schede elettorali, dietro le quinte della recente tornata referendaria. Il quesito era molto diretto e semplice: volete voi che continuino ad avere validità i principi costituzionali della segretezza del voto e della democrazia diretta? Sette elettori su 10 hanno risposto nettamente «no» a questo quesito. È questo il tema di fondo che emerge da queste votazioni. Al di là delle valutazioni di merito sui quesiti referendari in senso stretto.
L’istituto del referendum è stato voluto dall’Assemblea costituente per far sì che ogni singolo elettore, solo con la propria coscienza nel segreto dell’urna, potesse rispondere a quesiti dirimenti sulla legislazione nazionale, sciolto da qualunque vincolo e controllo da parte delle varie fazioni politiche: una scelta che permette al singolo elettore di esprimere coscientemente la propria opinione svincolato da qualunque controllo, anche se si tratta di un militante di partito. Il non voto come strumento politico per dire “no” rende di fatto palese la scelta dell’elettore che dovrebbe, invece, essere espressa liberamente solo nel segreto della cabina elettorale, per non essere controllabile.
Il referendum è l’unico strumento di democrazia diretta che la Costituzione affida direttamente nelle mani del corpo elettorale, senza intermediazioni politiche. Non ci sono liste di partito, non ci sono candidati: c’è solo un quesito sul quale si è liberi nel segreto dell’urna di esprimere la propria volontà, confrontandosi solo con la propria coscienza.
Subito dopo la chiusura delle urne è cominciata la complessa e spesso contraddittoria valutazione del voto, come è abitudine e come è giusto che sia. Ma al di là del voto in senso stretto sui cinque quesiti, questo passaggio ha segnato un punto di non ritorno della nostra democrazia. Dopo il misero 63,8% dei votanti che hanno deciso le sorti del paese alle ultime elezioni politiche, l’astensionismo al 70% registrato ai referendum dello scorso fine settimana rappresenta di fatto l’annullamento di due principi costituzionali: la segretezza del voto e il valore della democrazia diretta, senza intermediazione, che non è quella che si esprime sui social mettendo like e postando meme, ma è quella che si esprime nel segreto dell’urna elettorale.
L’utilizzo, ormai “istituzionalizzato” da anni indistintamente da parte delle forze politiche e sociali che si oppongo ai quesiti referendari, dell’appello pubblico al voto, unito a una disaffezione alla partecipazione elettorale che si è moltiplicata a dismisura negli ultimi anni, segnano da oggi uno spartiacque per la nostra democrazia. Il quorum al 50% +1 degli elettori al referendum è stato pensato in un’epoca in cui la partecipazione politica e l’attitudine alla discussione e al confronto con i cittadini da parte dei grandi partiti di massa portavano l’affluenza a ogni tipo di elezione a oscillare sempre fra l’80 e il 90%. Il venir meno di quel modo di intendere la partecipazione politica e l’abbandono delle motivazioni ideologiche alla base della formazione dei partiti hanno prodotto quella disaffezione alla partecipazione elettorale che tutti formalmente criticano, ma che è diventata strumentale per gli attuali partiti, non certo di massa come i loro predecessori ma poco più che comitati elettorali: meno “teste pensanti” con cui confrontarsi su progetti ideali e programmi di governo credibili ci sono, più facile è la gestione del consenso. Che non presuppone più militanza e convinta adesione a un ideale di società.
Nelle analisi delle forze di opposizione si sente spesso, e non solo in questo caso, lamentare l’uso strumentale della comunicazione social da parte della destra al governo con il fine di ridurre gli spazi di riflessione critica da parte dell’opinione pubblica e avere quindi l’opportunità di far passare anche misure profondamente illiberali, com’è il caso del recente decreto sicurezza, per restringere gli spazi dell’opposizione sociale al governo, anche quella più moderata e pacifica. Un disegno che, per i motivi esposti sopra, continua a compiersi con il progressivo smantellamento dell’impianto costituzionale, che ora coinvolge anche l’istituto del referendum.
Ma è, il compimento di questo disegno, colpa imputabile esclusivamente alla destra? La destra post-fascista fa, appunto, la destra post-fascista. E si comporta di conseguenza. Al di là del rispetto dei valori costituzionali, quindi, di fatto come poter imputare alla destra di stare compiendo il disegno per cui è nata?
Semmai questo potrebbe essere il momento giusto per porsi senza infingimenti di fronte a un altro tema: la sinistra e il cattolicesimo democratico hanno fatto realmente abbastanza, e agito bene, per impedire alla destra post-fascista di far dimenticare all’opinione pubblica i valori fondanti della Repubblica democratica nata dalla lotta contro il fascismo?
Nel libro “L’arte della guerra” di Sun Tzu, che in questo caso affronta un principio non applicabile esclusivamente al conflitto bellico ma estensibile al democratico conflitto politico, si legge: «Quando il nemico ti ha portato a combatterlo con le armi da lui scelte, a usare il linguaggio che lui ha inventato, a farti cercare soluzioni tra le regole che lui ha imposto, hai già perso tutte le battaglie, compresa quella che avrebbe potuto vincerlo». È un concetto sul quale sinistra e cattolici democratici non hanno ancora compiuto un’analisi efficace.
Bisognerebbe infatti andare alla radice di scelte che hanno di fatto legittimato quelle che storicamente sono state battaglie che la destra post-fascista, quando in grande parte non era ancora tanto “post”, ha condotto durante la cosiddetta Prima Repubblica per uscire dalla conventio ad excludendum nella quale era stata relegata da tutte le forze politiche che avevano dato vita alla Costituzione repubblicana. A cominciare dall’abbandono del sistema di democrazia rappresentativa e partecipativa delineato dalla Costituzione del 1948, che affidava ai partiti politici (grazie soprattutto alla rappresentanza proporzionale) il ruolo di corpi intermedi tra i cittadini e le istituzioni e di scuole di formazione della classe dirigente. Ruolo che è stato abbandonato per abbracciare la cultura della personalizzazione della politica, che è cominciata in sordina con la modifica del sistema elettorale in senso maggioritario e con l’elezione diretta dei sindaci.
Temi questi che, se la storia di questo paese insegna qualcosa, non a caso erano cari al Movimento sociale italiano che, sotto la guida di Giorgio Almirante, ha cercato in questo modo di uscire dall’isolamento politico. Personalizzare la politica, infatti, non vuol dire solo affidare le scelte a una persona e non farle nascere da un dibattito che faccia crescere un’intera classe politica. Vuol dire anche indirizzare gli elettori verso la scelta fra persone e non in via prioritaria fra le idee che esse portano avanti con l’azione politica.
Le qualità personali dell’onestà, della competenza e della credibilità non sono certo attribuzione esclusiva di tutti gli esponenti di un’unica parte politica. Emblematico è stato il caso che la storia politica di questo paese ci insegna come primo risultato storico della prima tornata elettorale amministrativa dopo l’introduzione dell’elezione diretta dei sindaci. Quando, in quel periodo, non era stata neanche ancora compiuta la transizione dell’allora Movimento sociale in Alleanza nazionale, in un’importante città alle porte della capitale, Grottaferrata, ad essere eletto sindaco, a capo di una coalizione che vedeva insieme il “vecchio” Msi e una lista civica di destra, è stato Mauro Ghelfi: uomo molto apprezzato in città, come persona e come professionista (era il farmacista a cui tutti si rivolgevano), ma che fino alla tornata elettorale precedente, presentandosi sotto le insegne del Movimento sociale, ne era l’unico rappresentante in un Consiglio comunale nel quale le forze politiche dell’arco costituzionale si alternavano nel governo della città.
Nei decenni successivi abbiamo assistito ad una trasformazione radicale della dialettica all’interno del campo del centrosinistra, che ha usato termini e principi propri esclusivamente in passato del campo avverso su temi quali il lavoro, la sanità, la scuola, l’università e finanche le istituzioni: la riduzione della rappresentanza istituzionale (e quindi della partecipazione alle scelte politiche) ai vertici (Parlamento) così come in periferia (Consiglio comunale), l’abolizione della elezione diretta dei consiglieri provinciali e la strutturazione dei partiti intorno al leader, con la scelta della classe dirigente fatta in funzione del grado di affinità con esso e non sulla base di una selezione sulle capacità e sulla formazione, hanno completato la trasformazione genetica della cultura politica del centrosinistra. Che non ha saputo costruire una cultura, ma soprattutto una narrazione, di un’identità alternativa che fosse chiaramente percepita.
Il tema, quindi, dopo la lezione dei recenti referendum non può essere se la destra post-fascista continuerà a fare la destra post-fascista, proseguendo l’azione di smantellamento pezzo per pezzo dell’impianto costituzionale del 1948. Il tema è se la sinistra e i cattolici democratici riusciranno a recuperare quello “spirito costituente” che li ha portati a far nascere l’Italia democratica, abbandonando toni e temi propri della parte avversa. E sappiano selezionare una nuova classe dirigente attraverso un percorso di formazione che privilegi competenze e idee innovative e non l’affidabilità valutata dal grado di vicinanza e accondiscendenza al leader.