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Presidenziali Usa: i quattro temi che hanno fatto la differenza fra Trump e Harris

Il trionfo di grossolanità esplicita su raffinatezza ipocrita non è vittoria ideologica ma fallimento sistemico: un'incapacità di alternative

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Sono ormai chiuse le elezioni del Presidente degli Stati Uniti: la persona, volenti o nolenti, con maggiore potere al mondo. Molte cose sono state dette, e molte se ne diranno. In queste brevi riflessioni a caldo, vorrei soffermarmi in particolare non sul tema della vittoria ma sul tema della sconfitta.

Per la seconda volta nella storia degli Usa, c’era una donna a competere contro un uomo: Kamala Harris. La prima volta, come sappiamo, è successa nel 2016, 8 anni fa, con Hillary Clinton. Entrambe hanno perso contro Donald Trump, il quale, però, nel 2020 ha perso contro un uomo, Joe Biden.

Joe Biden era veramente migliore di queste due donne o di Trump? Assolutamente no: è un uomo attempato, con diverse tematiche legali e familiari che certo non ne fanno un uomo esemplare e con difficoltà dovute all’età che si sono aggravate nel corso del tempo. Eppure, chissà come mai, ha avuto la meglio sul candidato che invece ha battuto le donne.

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Forse Donald Trump è migliore di queste due donne? Anche qui la risposta è assolutamente no. Parliamo di un uomo con una condanna penale, il più vecchio della storia ad insediarsi, a quasi 80 anni, con una serie di scandali, tra cui rapporti con predatori sessuali come Jeffrey Epstein e Puff Daddy.

Mi pare ovvio che il problema non siano le capacità e le qualità delle donne, ma proprio il fatto che siano donne che vogliono contrastare lo status quo del potere in mano agli uomini. E, come ripetutomi tanto da amici democratici quanto da amici repubblicani in questi giorni, entrambe le fazioni sono concordi nel sostenere che «non vogliono una donna alla guida degli Stati Uniti».

Sì, avete capito bene. Non vogliono una donna. E lo hanno detto a me, un’altra donna! E il giudizio non solo è comune a repubblicani e democratici, ma quello che fa più specie è che arriva tanto dagli uomini quanto dalle donne. In sintesi, il Paese “più democratico al mondo” non ci pensa nemmeno di votare una donna.

E direi che siano abbastanza eloquenti i 5 milioni di voti di differenza. Al netto dei brogli e dei voti multipli, molto facili da realizzare in un paese in cui si vota per corrispondenza e con alcuni elettori che hanno candidamente ammesso di aver ricevuto fino a 6 schede a testa per posta: una situazione che ad avvisto di molti amplierebbero il divario financo raddoppiandolo.

Quindi, il primo fattore che ha determinato la sconfitta è il fattore di genere.

Il secondo fattore è l’esito dello scontro tra due forme interne al tecnocapitalismo. Uno scontro che rivela tutte le contraddizioni del nostro sistema socioeconomico e che racconta una spaccatura sociale che non nasce oggi. E che si manifesta sempre più spesso nelle risposte elettorali negli Stati Uniti, come in Europa.

I progressisti americani hanno commesso l’errore fatale di offrire risposte estetiche a problemi esistenziali. Hanno creduto che bastasse circondarsi di star, sorrisi e glamour, che fosse sufficiente sentirsi più cool, più intelligenti, più giusti, meno pacchiani dell’avversario. Hanno scommesso sull’auto-evidenza della grossolanità altrui, senza comprendere che il paese reale è fatto di persone pervase da una stanchezza profonda, sia economica sia culturale.

Questo duplice malessere ha creato un terreno fertile dove la disinformazione, paradossalmente, ha finito per rivelare una verità fondamentale attraverso il falso: l’esistenza di un’élite progressista che prova un disgusto viscerale per la gente comune, un disgusto che cerca di nascondere sotto strati di glitter e retorica inclusiva.

Le persone percepiscono di essere costantemente ingannate. Una percezione su cui fa leva la disinformazione populista. E l’inganno sta proprio in questa patinatura progressista che propone il glamour come risposta alla precarietà, sia economica sia identitaria.

Il Partito democratico ha perso sostegno soprattutto tra gli elettori latinoamericani, per i quali l’economia e l’immigrazione sono prioritari.

In altre parole, Trump è stato votato da quelli per difendersi dai quali voleva costruire un muro!

Terzo fattore: gli Americani non si interessano e non vogliono interessarsi delle guerre d’Europa. Quindi ha prevalso il principio “Nimb”: «not in my backyard», ovvero non nel mio giardino dietro casa. Tutto ciò che è lontano da me non mi interessa e non manderò i miei figli o i miei soldi per una guerra che non è la mia.

Trump è stato infatti il primo e ad oggi unico presidente Usa a non aver fatto una guerra. Con buona pace dei finti pacifisti Italoamericani che stamani erano turbati dall’idea della pace e si interrogavano «a quale costo si sostiene la pace». Perché invece il fatto che anche le casse della nostra Italia siano state prosciugate per una guerra non nostra è un tema che evidentemente non li appassiona. Pertanto auguriamo vivamente siano portate a compimento le promesse di the Donald di porre fine al conflitto ucraino.

Da ultimo, a favore di Trump non possiamo non ricordare la sua politica contro il «terrorismo psicosanitario», le restrizioni e i lockdown durante il precedente mandato. Va inoltre apprezzata la sua posizione di rifiuto per il fanatismo woke e per l’ambientalismo ideologico.

Per il resto, ha vinto il male minore. È stata bocciata la deriva nichilista e bellicista della frangia neoprogressista, ma Donald non rappresenta certo un’alternativa al modello unico neoliberista, ormai consolidato e senza rivali, alla diffusione sempre più massiccia dell’intelligenza artificiale, alla minaccia concreta del transumanesimo, che trova nell’eccentrico Elon Musk un esponente di punta. Che sicuramente ha giocato un ruolo chiave, anche grazie al suo ruolo al Pentagono, nella vittoria del tycoon.

Per non parlare della questione israeliana, dove Trump non sembra contraddistinguersi affatto, anzi.

In questo scenario, il trionfo della grossolanità esplicita sulla raffinatezza ipocrita non è una vittoria ideologica, ma un fallimento sistemico: è l’incapacità di costruire un’alternativa che sappia essere onesta nel riconoscere il malessere diffuso senza strumentalizzarlo e la mancata volontà di cambiare binario, di proporre soluzioni alternative al capitalismo senza nascondersi dietro il velo della superiorità culturale.

La sfida ora è costruire una risposta politica che non cada né nell’estetizzazione superficiale dei problemi né nella loro strumentalizzazione populista.

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Lorenza Morello
Lorenza Morellohttps://lorenzamorello.it/
Giurista d'impresa e presidente nazionale Apm (Avvocati per la mediazione), si occupa di aziende, internazionalizzazione e ristrutturazione del debito e ritiene da decenni che la sua “missione” sia quella di rendere il diritto più comprensibile a tutti. Aiuta le aziende e le persone a prevenire il conflitto anziché venirne travolte. Laurea in giurisprudenza a Torino, 110 magna cum laude e premio Bruno Caccia, ha studiato a Oxford, Strasburgo, Oldenburg, Atene e Montreal. Autrice di molteplici pubblicazioni (tra le ultime "No taxation without representation") è nota nel mondo radiofonico e televisivo in Italia e all'estero anche grazie al suo ruolo di consulente di “Casa Italia”, su Rai Italia, in cui risponde ai quesiti e ai dubbi degli italiani nel mondo.
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