C’è un’ossessione che calamita l’attenzione del mondo politico da alcuni anni a questa parte, al di là degli schieramenti di parte, ma che in questi giorni si manifesta con più evidenza. La creazione di nuovi posti di lavoro contrattualmente garantito? Il finanziamento della ricerca, anche per evitare la “fuga dei cervelli” all’estero? Un sistema di istruzione che dia ai giovani un solido modello di riferimento culturale e agli insegnanti gli strumenti che ne gratifichino la preparazione? Una seria programmazione di politica industriale? Un sistema sanitario che superi le liste di attesa e sia valido allo stesso modo per tutti, dalle Alpi a Lampedusa? Niente di tutto questo: l’ossessione della politica è per il controllo dell’informazione e per ogni sorta di “bavaglio” alla stampa.
Un’ossessione che ha come unico punto di riferimento una rappresentazione della propria parziale visione che non dia spazio a critiche o a domande altrui, ma che con la scusa del contatto diretto con l’opinione pubblica eviti ogni strumento di intermediazione critica del proprio pensiero e delle proprie azioni. L’avvento dei social media ha offerto uno strumento di interlocuzione diretta che, come vediamo spesso, saltando il filtro dell’intermediazione critica punta a inculcare nelle persone una visione parziale e fuorviante della realtà oggettiva dei fatti.
Ultimo atto in ordine di tempo è stata l’approvazione, in Consiglio dei ministri, della norma che cambia l’articolo 114 del Codice penale, impedendo la pubblicazione anche solo di estratti delle ordinanze di custodia cautelare, finché non siano concluse le indagini preliminari o fino al termine dell’udienza preliminare. In sostanza una persona può essere sottoposta a indagini, e anche a provvedimenti restrittivi, senza che l’opinione pubblica ne possa sapere qualcosa. Anche se quella persona riveste un ruolo pubblico ed è sottoposta a un provvedimento restrittivo: semplicemente “sparisce” dalla vita pubblica.
Il provvedimento in questione è, ovviamente, un parto dell’attuale governo e del suo modo di vedere l’informazione, testimoniato dalla refrattarietà della presidente del Consiglio e dei suoi ministri a sottoporsi alle domande dei giornalisti, preferendo la propaganda diretta attraverso video e dichiarazioni preconfezionati e i post sui social media.
Ma, al di là dell’attualità, il modello di riferimento che accomuna tutto il mondo politico è quello che vorrebbe mettere il giornalismo nell’impossibilità di svolgere il suo ruolo di controllo e di critica. Lo si vede da diversi anni a questa parte anche con altri provvedimenti, come la cosiddetta “Legge Cartabia”, assunti da precedenti governi. Con il falso fine della presunzione di innocenza che, come abbiamo spiegato in riferimento ad altre circostanze, è fuorviante perché la presunzione di non colpevolezza è garantita in primo luogo dalla Costituzione della Repubblica e poi dalle norme deontologiche interne dei giornalisti italiani.
«Descrivere con precisione, citando i documenti, perché una persona viene arrestata non viola la presunzione di innocenza. L’informazione per essere libera deve essere anche chiara e completa. Non è un privilegio dei giornalisti, ma un diritto costituzionale dei cittadini». È questa la netta presa di posizione del presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Carlo Bartoli.
«Non solo si limita pesantemente la libertà di stampa – continua Bartoli -, ma si infligge un colpo duro alla trasparenza e al controllo sull’operato della magistratura da parte dell’opinione pubblica. Con buona pace del giusto principio sulla presunzione di innocenza».
Sulla stessa linea anche il sindacato unitario dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi). «Questo governo – afferma il presidente, Vittorio Di Trapani – continua a smantellare l’articolo 21 della Costituzione. Mentre tiene in ostaggio la Rai perché impantanato nella guerra per spartirsi le poltrone, mentre ottiene 15 minuti in prima serata per l’intervista auto-assolutoria di un ministro ex dirigente Rai, il governo trova il tempo di imporre un nuovo bavaglio alla stampa e ai cittadini, che saranno meno informati. Un ritorno al passato che nulla ha a che vedere con il garantismo. In realtà il divieto di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare è un piacere ai potenti che vogliono l’oscurità e ai colletti bianchi».
«Il sindacato dei giornalisti – dice la segretaria generale della Fnsi, Alessandra Costante – continuerà la sua lotta per il diritto di informare ed essere informati, sempre più minacciato da leggi bavaglio, conferenze stampa a senso unico, politici che parlano attraverso video autoprodotti, querele fatte per bloccare l’attività dei cronisti. Leggi liberticide, incertezza occupazionale, stipendi bloccati da dieci anni e compensi da fame per i freelance stanno rendendo questo Paese meno democratico. Su questi temi chiediamo all’Europa di non spegnere il faro acceso nei mesi scorsi».
«Per paradosso il giornalista per raccontare i motivi di una carcerazione potrà usare tutte le parole tranne quelle che il giudice ha usato nel suo atto di accusa. La conseguenza sarà un’informazione più opaca, parziale, e meno oggettiva»: lo afferma l’Usigrai, il sindacato unitario dei giornalisti Rai.
L’Usigrai contesta anche la motivazione («Ce lo chiede l’Europa!») per la quale sono state approvate le più recenti ”norme bavaglio”: «La legge 343/2016 del parlamento e del consiglio europeo, a cui si rifà il governo, si rivolge esclusivamente alle autorità pubbliche, non chiede di limitare le comunicazioni ai giornalisti, ma anzi raccomanda di tutelare la libertà di stampa. Più che a tutela di un arrestato, questo nuovo decreto appare un regolamento di conti verso la libera informazione; contribuisce a far perdere all’Italia posizioni nelle classifiche sulla libertà di stampa e appare in totale contrasto con lo European Media Freedom Act che tutela al massimo la libertà di stampa come fa anche l’articolo 21 della nostra Costituzione».